
C’era una volta in America
Il ragazzino che porta la pasta alla crema con una bella ciliegia sopra, a Peggy, perché se non le porti niente te la fa soltanto vedere, e poi, nell’attesa, non resiste e la mangia lui, è uno dei tantissimi momenti di poesia di un film tra i più importanti della mia vita, esaltati dalle immagini impeccabili di Sergio Leone e dalla musica di un Ennio Morricone in stato di grazia. “C’era una volta in America” ha, forse, un unico e piccolissimo difetto: l’eccessiva lunghezza. In compenso, la parte del passato in cui i protagonisti sono bambini, è uno degli esempi di cinema più belli mai realizzati in assoluto. Un’affermazione forte, ma che sono pronto a difendere davanti a qualsiasi attacco mi possa venir inferto. C’è stato un periodo della mia vita nel quale, consumando il VHS su cui avevo registrato il film, guardavo quella parte, della durata di un’ora circa, quasi un giorno sì e uno no. È stata, probabilmente, la mia prima e inconsapevole scuola di cinema, che ha segnato il modo di intendere il grande cinema, quello ben fatto, una sorta di cartina tornasole per distinguere i bei film da quelli brutti. Ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla prima volta in cui vidi il film, sento ancora un pugno allo stomaco quando mi capita di ascoltarne la colonna sonora, quasi che riportasse alla mente ricordi del mio passato e non elle immagini dii un film.
Parlavo di scuola di cinema inconsapevole perché da ”C’era una volta in America”, e da Sergio Leone, ho acquisito la passione per i flashback nelle storie, l’uso asincrono del sonoro, la perfezione formale del montaggio e della fotografia, e l’accostamento musica-immagini. Di tutto questo, però, ho preso consapevolezza in seguito, dopo aver frequentato l’Accademia dell’Immagine a L’Aquila. Ogni lavoro pratico che dovevamo svolgere, che fosse di scrittura o di realizzare video, l’imprinting di Sergio Leone diventava quasi palpabile dentro di me. Peccato sia morto troppo presto, ci avrebbe regalato ancora chissà quanti capolavori.